Discorso tenuto da Aimé Césaire a Dakar il 6 aprile 1966
Nell’ambito del Dibattito sull’arte nella vita del popolo che segnò l’apertura del Primo Festival mondiale delle arti negre (30 marzo – 21 aprile 1966)
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Testo integrale
1 Signor Presidente,
2 Signore e Signori,
3 Vorrei per prima cosa rendervi partecipi delle esitazioni che ho avuto nel prendere la parola in questo dibattito. Non sono in alcun modo un uomo di scienza, a nessun livello un esperto e ho coscienza che in una tale assemblea, ho molto più da imparare che da insegnare.
Vi chiederò inoltre di non vedere in questo intervento che la manifestazione del desiderio che ho di dirvi fino a che punto sono stato interessato dai vostri lavori e di sottoporre a titolo di contributo alcune riflessioni che sono nate dalla mia esperienza di uomo di cultura, dalla mia esperienza di poeta, dalla mia esperienza di uomo antillano a proposito della madre Africa.
Il tema di questo dibattito è così formulato: “ Funzione e significato dell’arte negro-africana nella vita del popolo e per il popolo”. Credo che per rispondere a questa domanda specifica, il modo più semplice sia di porsi prima di tutto una domanda più generale, di cercare di rispondere a essa e la domanda sarebbe: ”Funzione e significato dell’arte nel mondo moderno”. In altre parole, prima di parlare dell’arte africana e del suo significato per l’Africa moderna, mi sembra meglio parlare dell’arte ‘tout court’ e della sua funzione nel mondo ‘tout court’.
Perché, nel mondo come sta andando, è apparso essenziale agli organizzatori di questo dibattito, perché sembra essenziale a noi, uomini di cultura, il fatto di valorizzare la funzione dell’arte? Visto che, in fondo, l’arte non è tutta la cultura, non ne rappresenta che un aspetto. Allora perché privilegiare questo aspetto a discapito degli altri aspetti della cultura? Risponderò che è un segno dei tempi e che se noi abbiamo, deliberatamente, scelto di privilegiare l’arte, è perché stimiamo che, mai come oggi, il mondo ha avuto tanto bisogno dell’arte.
Che lo si voglia o meno, c’è in questi tempi (attualmente/ adesso) una civiltà eminente e tentacolare. È la civiltà europeo-americana, la civiltà industriale che avvolge il mondo nella sua rete e raggiunge ormai – poiché è chiaro che adesso siamo entrati nell’era del mondo finito – il punti più lontani del globo. È inutile ricordare i meriti di questa civiltà europea. Sono numerosi ed eclatanti. Ma, per capire il ruolo dell’arte, il nostro bisogno di arte e di poesia, è piuttosto il suo lato negativo che bisogna ricordare.
L’uomo della civiltà europea è un uomo che ha messo a punto un sistema di pensiero che gli ha permesso di vincere e di dominare la natura. Ma è accaduta al nostro conquistatore una singolare disavventura: ha finito per essere sconfitto dalla sua stessa potenza: è diventato il prigioniero e la vittima dei concetti e delle categorie che aveva inventato per comprendere il mondo. O meglio, con il pensiero europeo moderno (dico moderno perché l’Europa non è sempre stata quella che è ora) è nato un processo nuovo, quello che certi pensatori hanno chiamato un processo di reificazione, vale a dire di cosificazione del mondo.
Di cosa si tratta? Si tratta della sostituzione alla totalità dialettica che è il mondo, della sostituzione al mondo concreto ed eterogeneo, quindi ricco e vario, di una vera algebra di astrazioni omogeneizzate e dissociate che rappresentano una sintesi del mondo, comoda, probabilmente, ma che corrisponde a un impoverimento e a un surrogato del mondo stesso.
Le conseguenze, voi le conoscete, sono la comparsa del mondo meccanizzato, del mondo dell’efficienza, ma anche del mondo in cui l’uomo diventa lui stesso una cosa, del mondo in cui il tempo non è più il tempo, ma una modalità dello spazio, riempito di cose quantitativamente misurabili. In breve, siamo di fronte a una svalutazione progressiva del mondo, che sfocia naturalmente nella comparsa di un universo disumano sulla traiettoria del quale si trovano il disprezzo, la guerra, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. È questo, questa invasione del mondo e dell’uomo da parte delle cose, è questo processo di reificazione del mondo instaurato dalla cultura europea nella società che spiega quanto il bisogno di arte e di poesia sia oggi una necessità davvero vitale, nel senso in cui si dice che l’arte è vitale per l’uomo.
Come l’uomo ha bisogno di ossigeno per sopravvivere, così egli ha bisogno di arte e di poesia. Egli sa, infatti, al contrario del pensiero concettuale, al contrario dell’ideologia, che l’arte e la poesia ristabiliscono la dialettica dell’uomo e del mondo. Attraverso l’arte, il mondo reificato ridiventa il mondo umano, il mondo delle realtà viventi, il mondo della comunicazione e della partecipazione. In una collezione di cose, la poesia è giovinezza. È quella forza che ridona al mondo la sua vitalità originaria , che restituisce a ogni cosa la sua aura di meraviglia ricollocandola nella totalità originale. Cosicché salvare la poesia, salvare l’arte, equivale, in definitiva, a salvare l’uomo moderno personalizzando e rivitalizzando la natura.
Se ci fosse bisogno di una prova, direi che basta constatare che mai il bisogno poetico si fa tanto sentire, mai l’uomo si sintonizza, si aggrappa alla poesia in modo così disperato, come a un’ultima ancora di salvezza, come avviene al termine di queste epoche piene di rumore e furore che si chiamano guerra, sia che si tratti di guerra calda o fredda, precisamente quando si esce da queste stagioni in cui la non-comunicazione e la cosificazione si sono esacerbate a un livello decisamente intollerabile. E qui, penso al surrealismo europeo che ha seguito la Prima Guerra Mondiale e, siccome parlo a nome dei poeti d’Africa e dei poeti dell’Africa francofona, permettetemi di evocare qui l’insieme del movimento poetico chiamato Négritude.
Miei cari amici, devo dirvi subito che nessuna parola mi irrita di più della parola “négritude” – non mi piace per niente quella parola, ma poiché la si è impegnata e poiché la si è talmente attaccata, credo veramente che sarebbe mancanza di coraggio avere l’aria di abbandonare questa nozione. Non amo per niente il termine “négritude” e devo dirvi che mi irrita sempre quando, nelle conferenze internazionali in cui ci sono degli anglofoni e dei francofoni, si introduce questo concetto che appare come una nozione di divisione. La “négritude” è quello che è, ha le sue qualità, i suoi difetti, ma nel momento in cui è vilipesa, snaturata, vorrei comunque che si rifletta su ciò che era la situazione dei ‘Negri’, la situazione del mondo ‘negro’, nel momento in cui questa nozione è nata, quasi spontaneamente, talmente era la risposta a un bisogno.
Certo, oggi i giovani possono fare altro, ma credetemi, non potrebbero fare altro oggi se, in un dato momento, tra il 1930 e il 1940, non ci fossero stati degli uomini che avevano corso il rischio di mettere in piedi questo movimento chiamato Négritude.
Questo movimento della Négritude tanto attaccato e talmente deformato, non bisogna dimenticare il ruolo che ha ricoperto nel risveglio del mondo ‘negro’, nella rinascita dell’Africa. Quando leggo una frase come quella che Saint-John Perse ha pronunciato quando ha ricevuto il premio Nobel, quando ha scritto questo: “Quando la mitologia crolla, è nella poesia che trova rifugio il divino. Forse persino uno slancio, fino all’ordine sociale e alla contingenza umana, quando la portatrice di pane dell’antico corteo cede il suo pane alle portatrici di fiaccole, è all’immaginazione poetica che si accende ancora l’alta passione dei popoli in cerca di luce”. Se la ‘Négritude’ ha meritato l’Africa, è che, precisamente, nell’estensione dell’abominio e della notte, loro sono stati, malgrado i loro difetti, portatori di luce.
Questo concetto di négritude, ci si è chiesti se non fosse un espressione di razzismo. Credo che i testi sono lì da vedere. Basta leggerli e qualunque lettore di buona fede si accorgerà che, se la négritude è un radicamento particolare, la négritude è anche un superamento e una fioritura (realizzazione/piena espressione) nell’universale.
Per tornare al punto, dirò, a proposito della négritude, che, nella prospettiva della reificazione, il razzismo e il colonialismo avevano tenuto a trasformare il ‘negro’ in cosa. L’uomo nero non era concepito dall’uomo bianco se non a prezzo di una deformazione, attraverso stereotipi, perché è sempre di stereotipi che vivono i pregiudizi. Ed è questo il razzismo. Il razzismo è la non-comunicazione. È la cosificazione dell’altro, del Negro o dell’Ebreo; la sostituzione all’altro della caricatura dell’altro, una caricatura alla quale si dà valore assoluto. L’apparizione della letteratura della Négritude e della poesia della Négritude ha prodotto un tale choc solo perché ha rimesso in question l’immagine che l’uomo bianco si faceva dell’uomo nero, perché è intervenuta con le qualità, i difetti, la carica propriamente umana nel mondo di astrazioni e stereotipi che l’uomo bianco si era fino ad allora fabbricato nei suoi confronti in modo unilaterale.
Ed è proprio questo, credo, il servizio che la Négritude a reso al mondo. Era un modo di contribuire all’edificazione di un vero umanesimo, dell’umanesimo universale, perché in fondo non c’è umanesimo se non è universale, e non c’è umanesimo senza dialogo, e non può esserci dialogo tra un uomo e una caricatura.
Restituendo l’uomo nero alla sua statura umana, alla sua dimensione umana, per la prima volta, la letteratura della Négritude ha ristabilito le possibilità di dialogo tra l’uomo bianco e l’uomo nero, e non è uno dei suoi meriti minori.
È verissimo che la letteratura della Négritude è stata una letteratura di lotta, una letteratura di scontro, ed è lì il suo onore; una macchina da guerra contro il colonialismo e il razzismo, ed è lì la sua giustificazione. Ma questo è solo un aspetto della Négritude, il suo aspetto negativo.
Se noi abbiamo a tal punto odiato il colonialismo, se noi l’abbiamo talmente combattuto, è probabilmente perché noi avevamo coscienza che ci mutilava, che ci umiliava, che ci separava da noi stessi e che questa separazione era intollerabile: ma è anche perché noi sapevamo che ci separava dal mondo, che ci separava dall’uomo, da tutti gli uomini, compreso l’uomo bianco, in breve, che ci separava da nostro fratello. In altre parole, il poeta della Négritude odia tanto il razzismo e il colonialismo solo perché ha la sensazione che costituiscano barriere che impediscano l’instaurarsi di una comunicazione.
In breve, se dovessi definire l’atteggiamento del poeta della Négritude, la poesia della Négritude, io non mi lascerei disorientare dalle sue grida, dalle sue rivendicazioni, dalle sue maledizioni. Le sue grida, le sue rivendicazioni, io non le definirei che come una richiesta, piena di rabbia probabilmente, una richiesta impaziente, ma in ogni caso una richiesta di fraternità.
E arrivo all’oggetto stesso di questo discorso, il senso e il significato dell’arte nell’Africa di oggi.
Si può affermare senza timore che mai l’Africa ha avuto tanto bisogn dell’arte. Mai ha avuto tanto bisogno della sua arte, della sua personale arte. Questo è vero certo per le ragioni generali che richiamavo poco fa e che sono valide per tutto il mondo. Ma a ciò si aggiungono ragioni che sono specifiche dell’Africa.
Qual è il grande fenomeno dei tempi moderni? È che l’Africa è entrata definitivamente e tutta intera nell’aura e nell’orbita della civiltà europea. Basta dire questo affinché si capisca a quale punto l’Africa è minacciata. Minacciata a causa dell’impatto della civiltà industriale. Minacciata dal dinamismo interno dell’Europa e dell’America. Mi si dirà: perché parlare di minaccia, poiché non vi è presenza europea in Africa, poiché il colonialismo è scomparso e l’Africa è indipendente?
Purtroppo, l’Africa non ne uscirà così facilmente. Certo, la colonializzazione, il colonialismo offrivano la cornice ideale affinché questo impatto potesse agire in condizioni di massima efficacia. Ma anche se il colonialismo è scomparso, il pericolo di disintegrazione della cultura africana non è sparito con lui. Il pericolo è lì e tutto vi contribuisce, con o senza gli Europei: lo sviluppo politico, la scolarizzazione più spinta, l’insegnamento, l’urbanizzazione, l’inserimento del mondo africano nella rete delle relazioni mondiali, e non dico altro. In breve, nel momento in cui l’Africa viene davvero al mondo, rischia come non mai di morire a se stessa.
Questo significa che bisogna aprirsi al mondo tenendo d’occhio il pericolo e che, in ogni caso, lo scudo di un’indipendenza che non fosse che politica, di una indipendenza politica che non fosse corredata e completata da un’indipendenza culturale, sarebbe in definitiva la più illusoria delle difese, la più fallace delle garanzie.
La storia è sempre pericolosa. Il mondo della storia, è il mondo del rischio, ma è a noi che spetta in ogni momento stabilire e mettere a fuoco la gerarchia dei rischi. Dico che oggi il pericolo maggiore per l’Africa non è il rifiuto del mondo esterno, non è il rifiuto di apertura, non è lo sciovinismo, non è il razzismo nero, è al contrario l’oblio di se stessa, l’acculturazione e la spersonalizzazione.
Per tornare al mio argomento iniziale, dirò che il pericolo per l’Africa è di entrare a sua volta nella reificazione. E, questa volta, la reificazione non giocherà un ruolo nei rapporti con gli altri. Nel caso dell’Africa, ed è il colmo del dramma, la reificazione giocherà un ruolo nel rapporto dell’Africa con se stessa. Se non si fa attenzione, l’Africa rischia di non vedersi più se non attraverso gli occhi degli altri e di gettare su di sé uno sguardo che pietrifica.
Non vorrei che si credesse a un punto di vista arbitrario. Mi basta solo fornire come prova la discussione che è nata ieri alla Commissione delle Arti tra gli eminenti specialisti venuti dall’Europa e dall’America: M. Goldwater, m. Laude, Michel Leiris. Durante queste discussioni, M. Goldwater, parlando dell’influenza dell’arte africana sull’arte occidentale, ci ha detto che in realtà la parola “influenza” era impropria, che non c’era stata una vera e propria influenza dell’arte negra sugli artisti europei e che sarebbe più giusto dire che in un dato momento della storia dell’arte occidentale, l’arte africana, incontrata per caso, è servita da catalizzatore all’arte occidentale.
Tutto questo è vero, ha precisato M. Laude e ha mostrato in particolare che Picasso si è servito dell’arte negra solo per risolvere problemi personali suoi e che se Picasso a contestato l’arte occidentale è all’interno e non al di fuori dell’arte occidentale. La questione che io pongo è questa: questo è vero per la maggior parte degli artisti africani contemporanei? Quando, istruiti dall’Europa e formati nelle scuole europee, contestano, e ne hanno il diritto, quando contestano l’arte africana tradizionale, la contestano all’interno del contesto culturale africano o al di fuori di esso? La risposta è negativa, purtroppo e M. Fagg a ragione a dire che se l’arte tradizionale africana ha smesso di essere oggi il catalizzatore dell’arte occidentale, non ha ancora cominciato a essere il catalizzatore dell’arte africana contemporanea.
Ecco, vero, una critica che va lontano e che è rappresentativa dei pericoli che corrono oggi l’uomo d’Africa, la cultura d’Africa, l’arte africana.
- Bastide l’ha detto : non verrà forse un giorno in cui non ci sarà più arte africana e in cui non ci sarà più che una sola arte simile a tutte le altre arti del mondo, con questa sola differenza – ma assolutamente secondaria, insignificante, trascurabile – che sarà fatta dagli Africani e non dagli Europei o dagli Americani? Nessuno tra noi, certo, e al corrente dei segreti della storia e nessuno può dare la risposta all’interrogativo angosciato di M. Bastide.
Tutto ciò che possiamo dire, noi, uomini d’Africa, noi, uomini di questo dibattito, noi uomini di cultura è che noi non consideriamo auspicabile, né come un ideale da raggiungere la sostituzione dell’arte africana da parte di un’arte, alcuni diranno universale in senso positivo, altri cosmopolita in senso negativo, in ogni caso non specifica, realizzata dagli Africani.
Qui, sento l’obiezione di André Malraux, che ci dirà e ci ha detto: mille rimpianti, gli auspici e gli auguri non contano nella storia. C’è un’evoluzione, un’evoluzione che è necessaria. Ci è stato detto: cerchiamo di ritrovare l’anima africana che concepì le maschere: grazie a lei raggiungeremo il popolo africano. Non ci credo affatto. È André Malraux che parla: “Ciò che ha creato un tempo le maschere come ciò che ha realizzato le cattedrali è perduto per sempre”. Ma possiamo rispondere a André Malraux questo: che il problema è mal posto e che non si tratta di rifare le maschere, più di quanto si tratti per l’Europa di rifare le cattedrali.
Ma allora, mi si dirà, cosa bisogna fare per garantire all’arte africana – e non all’arte degli Africani – una sopravvivenza e una vitalità nuova in un mondo moderno per il quale quest’arte non è stata fatta e nel quale ogni elemento lavora alla sua scomparsa?
Qui per noi la questione è essenziale. Questa sopravvivenza e questa vitalità nuove sono possibili o sono soltanto auspicabili? A questo riguardo, io sono, esattamente come M. Bastide, molto meno pessimista di André Malraux. Più precisamente, non dirò che sono ottimista, dirò che la partita è ancora da giocare e che dipende da noi, da noi tutti, vincerla.
Credo che quando si parla di possibilità d o sopravvivenza dell’arte africana, l’errore è di porre i problema in termini artistici. Non è in termini artistici, è in termini umani che bisogna porsi il problema dell’arte africana, ed è la considerazione stessa del carattere specifico dell’arte africana che ci conduce ad adottare quest’ottica. Infatti, nell’arte africana, ciò che conta, non è l’arte, è prima di tutto l’artista, quindi l’uomo. In Africa, l’arte non è mai stata savoir-faire tecnico, perché non è mai stata copia del reale, copia dell’oggetto o copia di ciò che si conviene di chiamare realtà. Questo è vero per la migliore arte europea moderna, ma ciò è sempre stato vero per l’arte africana. Nel caso africano, si tratta per l’uomo di ricomporre la natura secondo un ritmo profondamente sentito e vissuto, per imporgli un valore e un significato per animare l’oggetto, vivificarlo e farne simbolo e metalinguaggio.
In altre parole, l’arte africana è prima di tutto nel cuore e nella testa e nel ventre e nel polso (battito/pulsazione) dell’artista africano. L’arte africana non è un modo di fare, è prima di tutto un modo di essere, un modo di essere maggiormente (di più), come dice il “theilardiano” Léopold Sédar Senghor.
Se questo è vero, si comprende il doppio fallimento a cui assistiamo spesso: il fallimento degli artisti africani che si avventurano a copiare opere europee o ad applicare canoni europei. Ma anche il fallimento estetico degli artisti africani che si mettono a copiare dall’arte negra ripetendo meccanicamente dei motivi ancestrali come quei negri boches (tedeschi?) di cui ci ha parlato M. Bastide e che, per un certo tempo, durante un certo periodo della storia, hanno ricopiato, riprodotto meccanicamente i modelli lasciati loro in eredità dai loro antenati ashanti.
È chiaro che questi tentativi non possono che fallire, perché sono precisamente contro-senso rispetto all’arte africana. L’arte africana non è copia. Non è mai copia, nemmeno di se stessa, non è mai riproduzione, ripetizione, duplicazione, ma al contrario ispirazione, vale a dire aggressione dell’oggetto, investimento dell’oggetto da parte dell’uomo che ha sufficiente forza interiore per trasformarlo in una forma di totale comunicazione (e non in quella forma impoverita di comunicazione che è il linguaggio).
L’arte africana, come ogni grande arte, mi si dirà, in ogni caso più di ogni altra, e da tantissimo tempo, se non da sempre, è per prima cosa nell’uomo, nell’emozione dell’uomo trasmessa alle cose dall’uomo e dalla sua società. È la ragione per cui non si può separare il problema del destino dell’arte africana dal problema del destino dell’uomo africano, vale a dire, in definitiva, dal destino dell’Africa stessa.
L’arte africana di domani varrà quel che varranno l’Africa di domani e l’Africano di domani. Se l’uomo africano si impoverisce, si indebolisce, se strappa le sue radici, se si priva della sua linfa vitale, se si separa dal suo patrimonio millenario, se diventa viaggiatore senza bagaglio, se si allontana dal suo passato per entrare più allegramente nell’era della civiltà di massa, se si sbarazza delle sue leggende, della sua saggezza, della sua cultura peculiare, oppure semplicemente se considera che non ha più nessun messaggio da consegnare al mondo, se ha perso la sua sicurezza storica o se non la ritrova, niente servirà, nonostante i festival, gli incoraggiamenti ufficiali, malgrado l’Unesco e tutti i premi, è molto semplice, l’arte africana si indebolirà, si impoverirà e scomparirà.
Se, al contrario, l’uomo africano conserva e preserva la sua vitalità, la sua sicurezza, la sua generosità, il suo humour, la sua risata, la sua danza, se mette fieramente radici sulla sua terra, non per isolarsi o per assumere un atteggiamento ostile, ma al contrario per accogliere il mondo, allora l’arte africana continuerà.
Sicuramente, si sarà evoluto, quest’uomo, e in meglio. Sarà trasformato, ma è meglio così, nello stesso modo in cui si trasforma d’epoca in epoca, il contenuto dei sogni e dell’immaginazione dell’umanità. Ma questa stessa evoluzione e questa mutazione saranno il segno che l’arte africana è viva e vitale. Tutto ciò è dipende in eguale misura da noi, da noi tutti, e non solo dagli uomini di cultura, perché tale separazione è assolutamente artificiosa, è nelle mani di noi tutti che si trova il futuro dell’arte africana.
Ecco perché, agli uomini di Stato africani che ci dicono: Signori artisti africani, lavorate per salvare l’arte africana, noi rispondiamo: Uomini d’Africa e voi per primi, uomini politici africani, perché siete voi che avete la maggiore responsabilità, fate della buona politica africana, costruiteci una buona Africa, create un’Africa in cui ci siano ancora motivi di speranza, di realizzazione, di essere fieri, ridonate all’Africa una dignità e una struttura sana, et l’arte africana sarà salvata.
Note
1 Source : Aimé Césaire, pour regarder le siècle en face, diretto da A. Thebia-Melsan, Paris, Maisonneuve et Larose, 2000 : 20-26.
Per citare questo articolo
Riferimento cartaceo
« Discours prononcé par Aimé Césaire à Dakar le 6 avril 1966 », Gradhiva, 10 | 2009, 208-215.
Riferimento elettronico
« Discours prononcé par Aimé Césaire à Dakar le 6 avril 1966 », Gradhiva [En ligne], 10 | 2009, mis en ligne le 05 février 2010, consulté le 25 août 2019. URL : http://journals.openedition.org
/gradhiva/1604 ; DOI : 10.4000/gradhiva.1604
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